“Ue,infinita lotta di potere”.Viaggio nella comunità italiana a Londra
Vista con gli occhi di un investitore italiano, c’è solo una domanda che in queste settimane dovrebbe valere la pena di porsi a Londra: Brexit sì o Brexit no? Dai sondaggi che sondano gli umori del cosiddetto “uomo della strada” sembrerebbe in effetti la domanda più presente nella mente di tutti, ma provate ad andare a Londra e scoprirete che il tema vero è un altro: cosa si può e si deve fare per garantire la crescita e il tenore di vita di una città da 8,5 milioni di abitanti che nel prossimo decennio supererà quota 10 milioni, anche e soprattutto grazie all’arrivo di nuovi immigrati.
Tra questi non pochi saranno europei ed italiani in particolare. Già oggi circa 250 mila connazionali vivono e lavorano a Londra e si stima che ogni giorno circa altri 2 mila italiani vi si trasferiscano, in cerca di fortuna. Siamo così andati a vedere da vicino timori e aspirazioni di chi ogni giorno lavora o amministra una città che è di fatto uno stato nello stato, ospiti di Investartone che per il neocostituito Italian Conservative (il gruppo di elettori conservatori di origine italiana) ha organizzato un evento col candidato sindaco di Londra dei “tories”, Zac Goldsmith, pronto a parlare della sua ricetta per la città senza però sottrarsi alla domanda: “Brexit sì o Brexit no?”.
Un evento molto diverso da quelli che si vedrebbero in Italia in circostanze analoghe: diversa la location, lo showroom di Tisettanta, azienda italiana che dal 1971 coniuga design e lusso nel settore dell’arredo con punti vendita aperti, oltre che in Italia e a Londra, anche a New York e Shanghai, diverso lo spirito della serata e delle domande che il pubblico intervenuto ha rivolto a Nick de Bois, ex membro del Parlamento (MP) ed attualmente Champaign Chairman di Zac Goldsmith, diversa la parola d’ordine risuonata più volte, “delivering”, ossia letteralmente: “erogare”. Erogare servizi, erogare soluzioni, erogare quanto gli elettori (o gli investitori) richiedono, con un approccio molto pragmatico che guarda al di là delle ideologie.
Così Zac Goldsmith, un “euroscettico” da sempre, non chiude la porta in faccia all’Europa ma, concentrato sulla corsa per diventare il successore del collega di partito Boris Johnson (nato negli Stati Uniti ma con doppia nazionalità statunitense e britannica, dal 2008 a capo della capitale ma anche deputato per la circoscrizione di Uxbridge e sempre più apertamente in corsa per una futura premiership), punta ad un programma che tuteli al meglio gli interessi dei londinesi, compresi quelli di nazionalità italiana ed europea.
Proprio gli italiani e gli europei, infatti che in base ad una direttiva europea (puntualmente applicata) potranno votare nelle elezioni amministrative del 5 maggio prossimo purché si registrino (basterà aver sottoscritto un contratto di affitto così da avere un domicilio cui recapitare la scheda elettorale), saranno secondo tutti l’ago della bilancia di una sfida che oppone a Goldsmith il candidato Labourista Sadiq Khan, Sian Berry, candidato dei Verdi, la Libdem Caroline Pidgeon e Peter Whittle, che corre per lo Ukip.
Filo-ambientalista (è contrario alla terza pista per l’aeroporto di Heatrow, in contrasto con la posizione del premier David Cameron), favorevole al lavoro di notte (meglio pagato di quello diurno e indispensabile per una grande metropoli come Londra, ma spesso relegato alla fasce più deboli del mondo del lavoro), Goldsmith, ha ricordato con grande verve oratoria Nick de Bois, punterà a sviluppare l’edilizia a prezzi accessibili per non trasformare Londra in una città per soli ricchi e rafforzerà ulteriormente il trasporto pubblico, in particolare sostenendo i progetti della metropolitana londinese, in opposizione al progetto di Khan (e del leader Labourista Jeremy Corbyn, contrario alla “Brexit”) di tagliare di 1,9 miliardi di sterline il budget di Transport for London (TfL).
Il tutto cercando di ottenere che una maggiore quota delle tasse raccolte su base locale resti nelle casse del comune (attualmente il 70%) e senza preoccupare troppo le numerose comunità straniere che da anni convivono e creano ricchezza assieme alla maggioranza britannica. Ma se la politica è attenta a presentare un volto pragmatico e si dice pronta a rispettare la volontà popolare, quale che sia l’esito del referendum popolare del 23 giugno, quale era l’umore della platea? Tra un assaggio di prodotti tipici italiani proposti dal Sardos Tourism Food & Catering di Luca Camboni e un bicchiere dei vini proposti da Castel de Paolis della famiglia Santarelli (Fabrizio Santarelli era presente, attento a capire quanto vini come il Donna Adriana o il Muffa Nobile venissero apprezzati dai quasi 300 ospiti intervenuti), molti dei presenti hanno ammesso la loro incertezza esprimendo la volontà di valutare attentamente pro e contro di entrambe le scelte, se restare o se uscire. Tutti, peraltro, sembrano pensare che la colpa dell’eventuale rottura sarebbe maggiormente da addebitare alla Ue, troppo burocratica, troppo divisa al suo interno da lotte di potere tra i singoli paesi, troppo assoggettata ai diktat tedeschi per garantire la giusta spinta alla crescita. E che pertanto le ricadute di un’eventuale rottura dovrebbero toccare più la Ue che la Gran Bretagna.
Sul punto gli economisti e gli uomini della City sembrano maggiormente cauti: “speriamo di poter rimanere uniti e di riuscire a superare i problemi che continuano a separarci” ci confida un banchiere d’affari. E se così non fosse? “Riteniamo che al di là dei problemi di breve periodo non dovrebbe cambiare nulla di sostanziale rispetto ad oggi: Londra è un hub finanziario ed economico di importanza mondiale, non sarebbe tanto la Brexit a cambiarla ma la capacità di trovare soluzioni in grado di garantirne la crescita, come dice Zac è una questione di delivering e di execution”.
La sensazione così è che la permanenza nella Ue finirà con l’essere accettata, sia pure a malincuore, da parte di quella maggioranza che razionalmente capisce che restare dentro la Ue vantaggi superiori a costi che pure continuano a sembrare troppo alti. “Se affronto una causa in Inghilterra i miei clienti in tre mesi ottengono una sentenza – ci spiega un avvocato di origine indiana trasferitosi a Londra da oltre 20 anni – se debbo ricorrere alla Corte Europea dopo tre anni ancora non sono certo di aver ottenuto un risultato”. E all’analista italiano non resta che dare ragione al proprio interlocutore e chiedersi come l’Italia (e la Ue) non riesca a capire che sono queste le riforme che fanno la differenza in termini di produttività e competitività di un paese, più che i soli rapporti tra deficit, debito e Pil o la presenza di una valuta unica uguale per tutti.
Luca Spoldi COPYRIGHT
Affaritaliani © 5/3/2016 – RIPRODUZIONE RISERVATA